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Tre aforismi minimi per Demetrio Stratos     di Gianni-Emilio Simonetti

1
La voce del popolo (raccontano) è Io strumento degli dei, protesi deII'ira divina che atterrisce parvenu e ministri di polizia. Per questo la si cattura. Da tempo, firma, fotografia e voce sono I'identi-kit di ogni quadro inquisitivo. Per questo le si coltiva. Prima ancora, però, la voce è grido. Poi comunicazione e insieme suo eccesso, perché «parla» anche I'aItro che tace. Essa tradisce il «segreto»più profondo, che invano la forma di quello militare insegue e burocratizza: il segreto del corpo. Contro questa voce che·giace dentro di noi il «pharmacon» della domanda scava incessantemente l'«archia» che induce all'obbedienza per colui (stregone o psichiatra) che pretende il fondo di ciò che non c'è. La voce, in principio, taglia il silenzio, essa compare come metafora delI'attesa.Sottolinea la mutazione, attraverso la pausa, verso il lamento. Nel lamento la voce è finalmente protesi di senso, omeopatia dell'oppressione. Attraverso la pausa Ia voce mostra il passaggio alla comunità, la fine del tempo dell'insidia che ogni silenzio coltiva nel cuore, essa inaugura la repubblica della propaganda contro il regno deIl'aldilà. La voce, ecco, è operaia perché per sua natura è opposizione.

2
Perché la voce diventi canto occorre che essa si rivolti contro la sua pulsione di morte, contro il «ghairm» (l'urlo), contro lo «sluaghghairm», il grido di battaglia delle anime dei soldati di Scozia (che i mass media gergano in slogan). Occorre che la voce sia pronunciata e che lo sia prima di corrompersi politicamente. Perché la voce è proprietà del popolo. Occorre che sia parlata prima ancora che - come sosteneva Varrone - qualcuno la scriva per sottrarglieIa. Perché la scrittura è un male politico, notava Rousseau, stigmatìzzando le cattive lingue della confusione. Duclos ha riscattato la voce dal destino babelico della forma architettonica, per diventare canto essa, ora, deve essere sottratta alla misura e alla regola  della bocca, facile preda delle tristi fatalità del comando. «Non avendo niente di libero se non la voce, leggiamo nelI'Émile, come potrebbe non servirsene per lamentarsi?».

Surrogato dei conforto e matrice che regola l'esteriorità del desiderio Ia voce è ostentazione e menzogna delI'esperienza portata fino al punto in cui la parola del discorso sarà giunta a inciampare: nel canto. A rivoltarsi  nella dimissione deIl'evidenza. Perché il canto conduce alla solitudine, quella di Josephine, la cantante dei sorcì, di Kafka, che tutti conosciamo, e quella che regola le cinque condizioni per un uccello solitario, che San Juan de la Cruz pone nei suoi Dichos di Iuz y amor, «che canti sommessamente».

3
II canto è la voce liberata dalla menzogna di sembrare verità. (alla maniera di...).

 

(Settembre 1977, in occasione del concerto-performance alla Galleria Marconi)

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